Artemisia Gentileschi, la donna che fece gridare la pittura

“L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità. (…) Nulla in lei della peinture de femme che è così evidente nel collegio delle sorelle Anguissola, in Lavinia Fontana, in Madonna Galizia Fede, eccetera (…)”. Ma vien voglia di dire questa è la donna terribile! Una donna ha dipinto tutto questo!”.

E’ il 1916 quando  Roberto Longhi sdogana la pittura della pittora Artemisia Gentileschi nata (oggi) nel 1593. Trecentoventitrè anni. 323 anni per restituire all’Italia e al mondo il tratto geniale della nostra Caravaggio femmina. Roberto Longhi guarda il Giuditta e Oloferne di Capodimonte e resta fulminato. Nessuno prima di lui l’ha neanche mai citata nei libri di storia dell’arte. Artemisia Gentileschi figlia di Orazio, pittore in Roma, che alla tavolozza del padre si avvinghia quando, presto, le muore la mamma. Artemisia approdata alle cronache del suo e degli altri tempi non per il talento ma per aver subito violenza da Agostino Tassi, pittore al quale il padre l’aveva affidata per il tutoraggio. Lei descriverà così, come se le parole fossero un pennello furioso, quello sbotto di violenza:

“Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne”.

Dopo averla violentata Tassi la prende pure in giro con la promessa di nozze riparatrici che non arriveranno mai. Orazio, il padre, col cavolo che interviene. Lei alla fine lo denuncia. Siamo nel Seicento, il suo è un atto eroico. E solitario. Viene esposta a tutto: giudici, visite ginecologiche lunghe e umilianti, la curiosità morbosa della plebe di Roma, pure agli occhi di un notaio che deve scrivere il verbale. Tassi alla fine viene condannato a 5 anni di prigione a l’allontanamento perpetuo da Roma, lui sceglie l’allontanamento e col cavolo che se ne va. Lei sarà costretta a sposarsi un inetto, neanche ve lo nomino, col quale prima espatria a Firenze e poi a Roma poi a Venezia e Napoli e l’Inghilterra. Lui, lo schiantato marito, riesce anche a coprirla di debiti. Lei continua a sfornare capolavori. Lei e tutto l’orrore che la accompagnerà sempre sono in quella Giuditta che decapita Oloferne, 1620, una GiudittArtemisia che continuerà a trovare la sua unica vendetta e riscossa sulle tele, per tutta la vita.

Perché le pennellate di Artemisia questo hanno: gridano.

Dovremmo parlare della sua grande arte e invece siamo ancora qui a narrare di un processo. Ma è proprio la tempra di questa donna battagliera e geniale che imprime un cambiamento di percezione epocale: è come se tutte le donne, fino ad allora subalterne, remissive, silenti, acquistassero con lei voce e “tratto” e iniziassero a scrivere e dipingere una nuova storia.

Sì, le donne possono dipingere. E denunciare. E ribellarsi. E competere con gli uomini. Pur continuando ahimè anche a soccombere.